Home Cultura THE YELLOW TRUCK: la mostra fotografica di Robert Herman

THE YELLOW TRUCK: la mostra fotografica di Robert Herman

1721

Napoli – Agli Archivi Mario Franco la mostra fotografica di Robert Herman, a cura di Chiara Reale, dà il via alla nuova rassegna cinematografica IL CINEMA ALLO SPECCHIO

Inaugura giovedì 1 marzo 2018, alle ore 18,30, presso Casa Morra – Archivi Mario Franco  la mostra fotografica di Robert Herman ”The Yellow Truck, a cura di Chiara Reale, a cui si lega la nuova rassegna cinematografica curata da Mario Franco dal titolo “Il Cinema allo Specchio”  incentrata sul “cinema che parla di cinema”.

Robert Herman è uno dei più importanti street photographer newyorkesi contemporanei. Le sue fotografie, così come le sue pubblicazioni, sono presenti in importanti musei americani ed europei.

La sua mostra, assolutamente inedita, “The Yellow Truck” raccoglie 20 fotografie in cui sono raccontate le fasi produttive di “Vigilante”, B Movie ambientato e prodotto negli anni 80 a New York. Gli scatti in mostra sono dedicati alle numerose figure professionali che lavorano duramente affichè la grande macchina cinematografica continui a muoversi, che non salgono mai alla ribalta ma che restano sempre e inevitabilmente un nome che scorre rapidamente nei titoli di coda. Ilcortometraggio  dal titolo “Story for Lisa” (USA, 1979, 16mm Color/Black and White, 14 min), scritto e diretto dell’artista, aiuta il fruitore ad entrare nel mondo di Herman e di comprende meglio cosa lui intende per “fare cinema”.

Spiega la curatrice della mostra Chiara Reale:

“Le caratteristiche narrative della fotografia di Robert Herman si avvicinano molto a quelle del linguaggio cinematografico, linguaggio che l’artista inizia ad apprendere fin dalla tenera età. Cresciuto fra le poltrone polverose e l’odore di celluloide del piccolo cinema d’essai di proprietà del padre, a Brooklin, guardando i film di Antonioni, Fellini e Rafelson, Herman inizia un percorso formativo che, arricchito e successivamente consolidato con la frequentazione della Film School alla New York University, contribuirà in modo determinante alla formazione del suo codice estetico e rimarrà nella sua produzione fotografica fino ai giorni nostri.

In “The Yellow Truck” l’indissolubile legame fra il cinema e la fotografia dell’artista viene affrontato apertamente, mettendo a nudo i punti di tensione, i nervi scoperti di tale rapporto.  La mostra infatti si compone degli scatti fatti da Robert Herman, street photographer che vive e opera a New York, nel corso della produzione del film Vigilante, B movie di cui tutte le figure professionali coinvolte non vedranno mai il relativo compenso economico. Scatti di backstage e foto di scena che raccontano un mondo amato di un amore quasi atavico che è stato, citando lo stesso Herman “la mia vita e la mia salvezza, con tutte le sue distorsioni”.

 

L’intento di svelare i lati più oscuri dell’ “establishment” cinematografico è sviluppato nella rassegna dal titolo “Il Cinema allo Specchio”:14 film che dal 1 marzo al 26 aprile verranno proiettati tutti i mercoledì e giovedì sera, e che partirà proprio il 1 marzo, successivamente all’inaugurazione della mostra, con il film “Alice nelle Città” di Wim Wenders. L’ingresso agli Archivi, così come la visione dei film, è gratuito fino a esaurimento posti.

Spiega il curatore della rassegna Mario Franco:

“Il cosiddetto “metacinema”, è quel cinema che mostra e parla di sé stesso e che descrive i meccanismi di funzionamento delle proprie strutture, dei processi produttivi ed economici e racconta l’evolversi della sua storia. Un cinema che, apparentemente, decide di scoprire l’inganno, di rivelare il trucco insito in ogni film. Come è noto, sono molti i grandi cineasti che hanno ragionato sul proprio lavoro, sulla bellezze ma anche sui compromessi e sulle crisi esistenziali del loro lavoro. (Godard con Il disprezzo, Fellini con 8 e mezzo, Truffaut con Effetto notte).

Film ambientati nel mondo del cinema sono anche quelli dedicati alla sua primitiva affermazione come industria (Nicikelodeon) o quelli ambientati nella Hollywood di fine anni Venti quando il cinema conquistò la parola, con gli attori del muto che temevano per la propria carriera in uno dei momenti più significativi della storia della produzione cinematografica, quando la gestualità delle espressioni divenne obsoleta davanti alle possibilità offerte dal sonoro. È interessante notare come Cantando sotto la pioggia, del 1952, sfrutti le potenzialità offerte dal sonoro e dal Technicolor, mentre The Artist riesuma il bianco e nero per un film muto che punta tutto sulla colonna sonora, in pieno 2011. Ma in omaggio alle fotografie di Herman, che documentano un film di serie B dove le maestranze e gli attori restano senza paga mentre il film si interrompe per deficienze produttive, ecco un film, Lo stato delle cose, nel quale Wenders racconta una storia analoga o l’Ed Wood di Burton, che narra della strana carriera del “peggior regista della storia del cinema”, un grottesco elogio della bruttezza che ci invita a riflettere sui generi cinematografici e sull’ambiguità sessuale, per andare oltre ogni pregiudizio e per interrogarci su cosa è lecito definire “arte”. Ancora a Robert Herman, cresciuto nella sala cinematografica gestita da suo padre è dedicato L’ultimo spettacolo di Peter Bogdanovich – che nei primi anni ’70, era un giovane critico innamorato del cinema e dei suoi personaggi mitici – e alla città di New York alla quale Herman ha dedicato molto del suo lavoro fotografico.

Nella tradizione dei nostri Archivi, che hanno l’abitudine di mostrare film difficilmente vedibili altrove, mostreremo anche un’immagine inedita di New York nell’interpretazione di Steve Reich, un omaggio alle sue strade e ai suoni della grande mela. Reich è uno dei padri del minimalismo, premio Pulitzer 2009 e Leone d’oro 2014 alla Biennale Musica di Venezia. Reich dedica la sua musica a Manhattan per poi condurci alle prove del concerto ed infine alla sua rappresentazione in teatro. Anche qui un discorso metalinguistico, incentrato sull’atto stesso del comporre: un punto di vista “emotivo” che si “mostra mostrare” e si “guarda guardare”. L’autoriflessività, riassumibile nell’idea che la creazione può interrogarsi sulla natura stessa dell’atto creativo, è tipico della modernità, percepita come parte integrante della produzione di senso nella letteratura, nel teatro, nella pittura e nel cinema.”

 

 

 

 

 

 

 

Lascia una risposta

Please enter your comment!
Please enter your name here