Recensione – Il classico esempio di quando per strafare a tutti i costi si finisce con il commettere degli errori grossolani. È questa la percezione di cui si fa fatica a liberarsi dopo la visione di “The Legend of Tarzan”.
Possiamo dimenticare Cita e il celeberrimo “Io Tarzan, tu Jane”. Il film di David Yates non propone la storia tradizionale che noi tutti conosciamo sebbene, per amor di cronaca, lontana dal libro che le dà origine. Quella viene rammentata agli spettatori tramite alcuni flashback, costituendo tuttavia solo un trampolino di lancio per la nuova sceneggiatura. Yates sceglie infatti di raccontarci di John Clayton III (Alexander Skarsgård), quinto Conte di Greystoke e membro della Camera dei Lord, l’elegante nobiluomo inglese che rinnega il suo passato da Tarzan fino a quando determinate circostanze storico-politiche lo riporteranno in Africa. Un uomo diviso fra due identità, fra due mondi e due vite. Uno spunto narrativo interessante quanto a creatività, su questo non ci piove. Pregio che rende tale versione anche abbastanza prossima alla trama originale del romanzo di Edgar Rice Burroughs, addirittura una delle più fedeli rispetto ad altre produzioni precedenti.
Peccato però che la regia abbia alla fine deciso di strafare, come dicevamo, rendendo Tarzan una specie di Superman o di Spiderman. Invece di mostrare al pubblico le potenzialità naturali e fattibili di un uomo cresciuto in mezzo alla giungla, si è optato per una specie di supereroe ammaliatore di animali selvaggi, dotato ad esempio di udito e forza inauditi. Qualche fragilità in più avrebbero reso il Signore delle Scimmie probabilmente meno “fico”, ma sicuramente più umano e verosimile.
Né tanto meno gli aspetti su cui si avrebbe qualcosa da ridere si esauriscono qui. Il film pecca infatti di difendere valori giusti, quali la spietata lotta al colonialismo e alla schiavitù razzista, in un periodo storico in cui il politically correct è tuttavia un anacronismo storico. Le tematiche trattate sono parecchie: in breve Yates non si fa mancare nulla. Eppure appare ennesima forzatura anche la decisione di inserire nella vicenda George Washington Williams, giornalista e politico americano del XIX secolo ricordato per essere autore dei primi libri che raccontano la storia afroamericana in maniera obiettiva. Ad esempio la lettera finale trae le sue parole da una vera epistola che l’intellettuale scrisse accusando Re Leopoldo II. Forse per dare una patina di credibilità alla leggenda, nel film George è amico del Conte di Greystoke.
E se si vuol sorvolare sulla mossa audace di mescolare finzione e realtà, un po’ meno si può chiudere un occhio a proposito del lieto fine che la pellicola ci racconta ci sia stato in un certo senso per il Congo, grazie fra l’altro a Tarzan. In realtà la storia ci insegna che si tratta di un falso storico dato che gli eventi ebbero un epilogo diverso, nozione che si può appurare consultando qualsiasi libro di scuola e non.
In contraddizione con “cotanta correttezza zuccherosa” ci sono poi i riferimenti fuori luogo a un “cristianesimo cattivo”: indigeni che crocifiggono soldati belga su croci realizzate con fucili, l’antagonista che immobilizza e strangola gli avversari con un Rosario, Jane (Margot Robbie) che fa battute alludendo ai preti pedofili. Un accanimento critico che appare abbastanza fuori traccia all’interno del prodotto in toto. Fattibile ipotizzare che lo scopo degli autori fosse quello di contrapporre la corruzione del cattolicesimo all’idillio armonico delle tribù africane. Sarà sfuggito loro l’ondata di valori di pace e amore di alcuni popoli cannibali proprio del Congo. Del resto, nello stesso romanzo, Edgar Rice Burroughs non era particolarmente magnanimo nel descrivere le culture locali.
In conclusione “The Legend of Tarzan” è un risultato un po’ stravolto che non dovrebbe stupirci se si considerano i precedenti esiti della regia di David Yates con gli ultimi film di Harry Potter. Tutto sommato, se non si hanno particolari pretese, resta una pellicola godibile, con ottimi effetti speciali e eccellenti tecniche di scenografia computerizzata. Perfetto per chi ama i blockbuster un po’ commerciali, ma di spiccato impatto visivo. Diverso rispetto alle solite interpretazioni. Semplicemente con poca lode e qualche infamia.
Di Valentina Mazzella