RECENSIONE – Dal cinema al teatro, la grande opera di Ingmar Bergman resta immortale. “Il rito” ha debuttato al Teatro Mercadante di Napoli martedì 27 febbraio e resta in scena fino a domenica 3 marzo 2024. L’adattamento e la regia sono diretti da Alfonso Postiglione. Gianluca Iumiento si è occupato della traduzione del drammaturgia, in originale scritta in svedese.
“Il rito” è uno spettacolo di grandissimo e immediato impatto visivo. Le scene di Roberto Crea sono statiche e frontali, ma arricchite da giochi di luci, ombre e proiezioni. La platea può così godere di ‘uno sguardo cinematografico’. Sul palcoscenico quattro attori: Elia Schilton (Giudice Ernst Abrahmsson), Alice Arcuri (Thea Winkelmann), Giampiero Judica (Sebastian Fischer) e Antonio Zavatteri (Hans Winkelmann). I loro personaggi sono concentrati, densi. La performance pienamente convincente ed evocativa. Con le musiche di Paolo Coletta, la suggestione è assicurata.
“Il rito” è ispirato alla trama, per l’appunto, dell’omonimo film di Ingmar Bergman del 1969. La storia è a modo suo kafkiana, con un retrogusto grottesco. Tre artisti teatrali, attori di teatro, vengono convocati a colloquio da un giudice in quanto indagati in merito alla singolarità di un certo spettacolo. La stessa rappresentazione che dà il titolo all’opera. Il pubblico esplora le dinamiche ingarbugliate tra i tre protagonisti anche nel privato. Alla fine il giudice — e gli spettatori con lui — assisteranno al fantomatico ‘rito‘.
Bergman ieri e Postiglione oggi ricorrono alla narrazione per denunciare un certo clima di censura che imperava soprattutto negli anni in cui il regista svedese operò. Una censura di cui Bergman stesso fu vittima. E allora il focus resta acceso su un tema importante: l’impossibilità di imbavagliare la creatività e l’arte perché le stesse liberano l’essere umano dalla menzogna e dalla propria condizione di finito. Anche sacrificando la vita e a costo della morte.
Di Valentina Mazzella