RECENSIONE – Accattivante ultima pellicola di M. Night Shyamalan, già autore del celeberrimo “Sesto senso” (1999) e del più recente “The Visit” (2015). Abbastanza da conservare ferma l’attenzione dello spettatore nonostante qualche discutibile pecca elementare impedisca il raggiungimento dell’ineccepibilitá.
Un thriller/horror che trae la sua forza dalla curiosità e che non vive particolarmente di pathos. Lo spettatore, stranamente a suo agio nell’assistere alla diegesi, è più sinceramente interessato a conoscere e ad approfondire la complessa psicologia dell’eclettico sequestratore piuttosto che spaventato e tenuto sulle spine in previsione di quanto potenzialmente potrà accadere. La sensazione di ansia non viene del tutto innescata neanche quando la regia tenta un montaggio alternato per rappresentare la simultaneità delle azioni dei personaggi scandendo un tempo limitato a disposizione. A compromettere il tentativo, rincuorando e facendo rilassare chi guarda, è la lampante distanza spaziale che separa i contesti. A regalare angoscia è invece soprattutto la scenografia: il sotterraneo angusto, sudicio e dall’illuminazione opprimente in cui si svolgono i fatti.
Assolutamente magistrale, senza alcuna ombra di dubbio, la performance di James McAvoy nei panni delle svariate personalità del protagonista. Così impeccabile che, se inizialmente per presentare i diversi volti di Kevin si esigeva accompagnare il cambio di atteggiamento e postura con un nuovo costume, una volta addentrati nel film si è perfettamente in grado di distinguere l’interpretazione della signora Patricia da quella di Dennis o i modi di Barry da quelli di Orwell anche tranquillamente senza assistere a un cambio di abito.
Shyamalan propone famosi topoi del genere horror come l’immancabile bionda vergine, la vittima non caucasica o il concetto di sacrificio. Non disdegna eleganti citazioni cinematografiche come gli inconfondibili riferimenti a “Psyco” di Hitchcock o a “Shining” di Kubrick. Spiace solo per le scarse capacità di problem solving delle tre fanciulle rapite, purtroppo pari a quelle di un piegaciglia perché, diciamocelo, lo sa anche un bambino di tre anni che uno specchio in camera sia sempre un’arma a portata di mano.
Unica nota davvero dolente il finale troppo inverosimile rispetto alla plausibilitá e fattibilità a cui il film abitua nella prima ora e mezzo di proiezione. Si ha quasi la percezione che all’ultimo ci sia un repentino salto di genere, che dal thriller/horror si passi a una sorta di prequel che approfondisce il passato dell’antagonista di chissà quale sconosciuto supereroe. Che anche la pellicola abbia diverse facce e personalità come il suo protagonista? Poi nella scena di chiusura un volto e una battuta che non solo lasciano presagire un sequel. Addirittura destano un enigmatico dubbio: che “Split” sia stato concepito da Shyamalan preventivamente per essere intrecciato con “Unbreakable – Il predestinato” (2000), un vecchio lavoro dello stesso autore? Nelle locandine dalla grafica “frantumata” magari un indizio che è chiave di una conferma quasi sicura.
Di Valentina Mazzella