RECENSIONE – Guardando il film si viene tormentati da una domanda amletica: si è di fronte a una vera e propria opera d’arte che per essere apprezzata richiede il possesso di particolari competenze che magari non abbiamo o si tratta effettivamente di uno spreco di tempo e denaro? Sicuramente non un film per tutti, ma in fin dei conti ogni tanto vale ancora il fantomatico “de gustibus”. Dunque può anche darsi che non si sia all’altezza di certi orizzonti, ma purtroppo è un dato di fatto che “Song to Song” ai più faccia sbadigliare letteralmente.
Ci spiace tanto per Terrence Malick, ma davvero a fine proiezione quello che sembra restare del suo lavoro al pubblico sono le diverse acconciature dei capelli di Rooney Mara e le meravigliose case dotate di parquet, vetrate e giardini con piscine con cui rifarsi gli occhi come si sfogliasse un catalogo dell’Ikea. E a discapito del titolo, neanche una singola canzone colpisce e si insinua in testa se non si è patiti del genere musicale.
Le inquadrature dinamiche e il montaggio intrecciato sono interessanti. I ricercati giochi con la luce del sole della fotografia (curata dal Premio Oscar Emmanuel Lubezki) sono spettacolari, ma contribuiscono unicamente a un’estetica fine a se stessa. Non valorizzano alcunché considerato che di per sé la narrazione è lenta, trascinata e decisamente noiosa. Malick ha provato a realizzare un film senza sceneggiatura: neanche gli attori sapevano cosa sarebbe successo ai loro personaggi e sono stati diretti nelle scene di volta in volta. Si è preferito improntare il lavoro molto sull’immagine che tuttavia da sola non è riuscita a colmare le lacune dell’esito.
La storia è raccontata attraverso lunghi silenzi e monologhi retorici e banali sulla vita, su chi siamo, su dove andiamo… senza offrire prospettive fresche. Non si trascurano nemmeno i dualismi eternamente in lotta come la morte interiore e la rinascita, il senso di colpa e la misericordia divina, il mondo e Dio, l’edonismo e la semplicità, il successo e la vita vera, la voglia di avere qualsiasi cosa e le rinunce, il sacrificio e il compromesso. Il tutto con il probabile scopo di proporre un prodotto profondamente sensibile che cerca di essere evocativo e ipnotico senza tuttavia riuscirci come vorrebbe.
Malick propone una trama amara capace di trasmettere la giusta dose di malinconia e porsi qualche domanda esistenziale fra una scrollata di testa e l’altra per non chiudere gli occhi. Narra di due triangoli amorosi in cui i protagonisti vivono tradimenti, bugie, gelosie e angoscia in un ambiente di musica, concerti, lusso, ribellione e vacua ricerca della fama. L’atmosfera è impregnata di un erotismo ludico e particolarmente sudicio. Si marcia sullo sfruttatissimo tema del meccanico sesso come mezzo per raggiungere le proprie ambizioni contrapposto alla genuinità degli irripetibili sentimenti veri costruiti sulle piccole cose. Morale assolutamente condivisibile, ma raccontata senza il pathos e la drammaticità empatica adeguati. Anche le stesse interpretazioni degli attori sono abbastanza mediocri se paragonate al loro trascorso e tutto il film sembra abbia promosso la propria distribuzione investendo sulla notorietà del proprio cast. Del resto Ryan Gosling, Natalie Portman, Michael Fassbender, Rooney Mara e Cate Blanchett sono nomi non trascurabili. Purtroppo però di eredità si campa fino a un certo punto.
Di Valentina Mazzella