RECENSIONE – Dal 9 maggio uscirà nelle sale italiane “Pet Sematary”, un film dell’orrore adatto anche ai più paurosi. La regia di Kevin Kölsch e Dennis Widmyer riporta sul grande schermo l’omonimo romanzo di Stephen King del 1983 che nel 1989 aveva già trovato un primo adattamento cinematografico con la pellicola “Cimitero vivente” di Mary Lambert. A distanza di trent’anni si avvertiva di poter dare nuova vita al capolavoro dello scrittore del Maine senza inciampare nella banalità della replica. L’opera si avvale di una fotografia suggestiva, sebbene per renderla ad effetto siano bastate un po’ di nebbia e delle maschere. La storia attinge dallo scatolone dei cliché dei film horror. Ripesca gli scenari del bosco, del cimitero, delle terre indiane e della casa isolata nella foresta. Non si priva di personaggi archetipici dei film horror: i genitori con i sensi di colpa per l’eccessivo lavoro che conduce loro a trascurare la famiglia o il misterioso vicino anziano che la sa lunga sui criptici eventi del posto. Si aggiungono alcuni elementi quali sangue, zombie e incubi tra dimensione onirica e realtà e si ottiene un prodotto che non brilla certo per originalità, ma che tuttavia si lascia ugualmente visionare con piacere. Non mancano un paio di omaggi ad alcuni must del genere come “Shining” e “L’esorcista“.
Sicuramente quanto fa innalzare il livello qualitativo della pellicola, malgrado alcune lacune nella sceneggiatura, è l’introspezione psicologica dei personaggi e della faccenda narrata. Nonostante i protagonisti agiscano esattamente come lo spettatore dotato di senno mai farebbe, non si può fare a meno di immedesimarsi. Come spesso accade guardando questo genere di film, non si comprende perché i personaggi non si tengano alla larga dal pericolo sebbene ne sia lampante la natura. Eppure si prova facilmente empatia nei loro confronti. Si comprendono pienamente i sentimenti alla base di certe scelte del tutto fuori luogo. Ed è questo quello che spaventa: più che la vicenda narrata in sé, forse proprio il dilemma etico che desta nella coscienza del pubblico. Stephen King attinge da traumi della vita reale per riflettere sulle paure dell’uomo, sugli scrupoli, i suoi tormenti, la fame di giustizia e di vendetta, l’incapacità di accettare la morte e la perdita di una persona cara. Ricorre a questi ingredienti come trampolino di lancio per poi indagare sui limiti oltre i quali l’essere umano, messo alle strette, sarebbe disposto a spingersi se solo ne avesse l’opportunità.
Di Valentina Mazzella