Napoli – Medea la pazza, l’infanticida, la strega, la gelosa, l’assassina, la straniera. Il nome del mito di questa donna è stato declinato in infiniti modi, e noi vogliamo metterli tutti insieme, senza risparmiarci, e senza procedere in facili condanne o assoluzioni. Euripide, Apollonio, Seneca, Ovidio, e ancora Anouilh, Grillparzer, Christa Wolf, o von Trier e Pasolini, sono solo alcuni degli autori che ne hanno raccontato, con visioni spesso contrastanti, la storia, e noi partiamo proprio da Euripide e Seneca per costruire un lavoro di indagine psicologica, e cercare una nostra visione, senza rinunciare all’impianto tragico classico. Attori solisti e coro si incrociano in scena per dare vita a una tragedia umana che, con gli occhi contemporanei, diventa una tragedia collettiva di emarginazione, sangue e dolore.
L’ambientazione è una desolata spiaggia del mediterraneo, una Corinto che si avvicina alla siciliana Lampedusa o comunque a una delle tante dove oggi sbarcano gli esuli dai paesi d’origine, così come è successo a Medea e Giasone, costretti ad abbandonare le loro terre. Ma l’uomo, che non accetta la misera vita da rifugiato, ha appena abbandonato la moglie ed i suoi figli, per la sua scalata sociale: sposare la figlia del re Creonte. Medea, disperata, come una belva ferita medita la vendetta. Innamorata e disperata, come nella versione di Euripide, la protagonista qui ha anche il piglio, la spietatezza e la lucida follia dell’omologa senechiana, così come Giasone, è sicuramente l’egoista e solitario eroe della tragedia greca, ma anche l’esule debole, combattuto e vinto così come lo ha dipinto il tragediografo e filosofo latino. Un conflitto di personalità, di dolore, risolutezza, amore e odio, che offrono molteplici spunti di riflessione, per temi che restano immortali e sempre contemporanei.
Il regista Gianmarco Cesario spiega: La forza del mito è quella di rappresentare un archetipo, un modello, per gli uomini moderni. Medea, la donna che è diventata famosa per la serie di spietati omicidi perpetrati nel corso della sua vita, culminati con la strage dei suoi bambini, è, innanzitutto, una donna che soffre per la differenza con il mondo che la circonda, una differenza che agli occhi degli altri diventa una diversità. Innanzitutto, in una società di eroi, è donna, inoltre ha il dono della conoscenza, così come lo stesso Creonte le riconosce, e, infine, una straniera. Dal V secolo a.C. ad oggi la diffidenza nei confronti di donne intellettuali e straniere non è cambiata, si ride di loro, del loro non essere inquadrate in modelli femminili più accomodanti, rassicuranti, esteticamente e intellettualmente. La Medea infanticida è un’invenzione teatrale di Euripide, reiterata da quasi tutti gli altri autori, ad eccezione della scrittrice tedesca Christa Wolf, la quale diede ai cittadini corinzi la responsabilità dell’orrendo delitto, architettato proprio per incolpare lei, la “diversa”. Nell’affrontare la mia regia ho, tuttavia,- continua il regista – preferito lasciare a lei la colpa del gesto, rifacendomi più al finale di Seneca che a quello di Euripide, perché l’orrore di quanto compie è comunque una conseguenza di un processo di emarginazione e ghettizzazione al quale lei non sa rispondere in maniera diversa, liberando definitivamente i figli dal suo stesso destino di reietta, e, sicuramente anche per colpire nel modo più atroce Giasone, fino a quel momento inconsapevole del dolore vero che ha causato. Un gesto certo non condivisibile, ma che sottolinea tutta l’umanità di questo personaggio, una femmina che è immersa in un mondo maschilista, che le ricorda continuamente, nelle figure maschili del coro, mutuato dalla versione senechiana, quanto la sua persona sia inadeguata al cospetto della società che la circonda, ma che trova solidarietà nelle figura femminili del coro (appartenenti alla versione di Euripide) che invece sembrano riconoscersi, silenziosamente in quel soffrire che loro non denunciano, perché totalmente assuefatte dalla legge degli uomini. Da qui la scelta di avvicinare Corinto ad una Sicilia senza tempo, in cui queste figure, intrise di sole sabbia e salsedine, non riescono a lenire le ferite delle loro anime, e, tra suoni ancestrali e il canto di brani popolari del repertorio di Rosa Balistreri, artista siciliana che sulla propria pelle scontò la colpa dell’essere donna in una terra di maschi, affrontano il dolore senza tempo delle loro progenitrici.
GIANMARCO CESARIO – Drammaturgo, docente di storia del Teatro presso numerose Accademie di recitazione, e giornalista, ha al suo attivo diverse esperienze anche come regista, che, nel corso degli ultimi trent’anni, lo ha portato ad affrontare autori e stili diversi: dai grandi classici di Sofocle (Edipo Re), Shakespeare (La Dodicesima notte e Sogno di una notte di mezza estate), Machiavelli (La Mandragola), Moliere (Don Giovanni) ai grandi del XX secolo, quali Federico Garcia Lorca (Nozze di sangue), Tennessee Williams (Un tram che si chiama Desiderio e La Gatta sul tetto che scotta) e Ariel Dorfman (La Morte e la Fanciulla), ma anche autori contemporanei, quali Luciana Luppi (Libertà di scelta) e Marina Salvetti (Io sono Fedra), senza disdegnare incursioni nel repertorio comico con le farse di Cechov, Labiche, Petito e Vincenzo Scarpetta.
Orari: Ven. ore 21,00, Sab. ore 20,00. Dom. ore 18,00
Biglietto: intero € 15,00 – ridotto per scolaresche € 10,00