Recensione – Anche per una grande casa di produzione e distribuzione come la Disney il successo può essere un’onda con alti e bassi. Amara verità confermata questa volta dal film “Il drago invisibile” di David Lowery, uscito al cinema già una ventina di giorni fa.
“Pete’s Dragon” è infatti una fiaba poco riuscita. La sua trama è troppo lineare e scontata, con situazioni, risvolti e colpi di scena prevedibilissimi. Ancora una volta abbiamo lo scontro fra buoni e antipatici, sebbene con un peso particolarmente marginale rispetto al tradizionale centralismo Disney. Personaggi antipatici perché in questa storia neanche i cattivi riescono a essere veramente tali, ma senza troppe meditate sfumature di dualità. I dialoghi non convincono e appaiono discreti. Le musiche sembrano piazzate a caso, fallendo nel destare il pathos che invano inseguono. Si resta di sale scoprendo che ne è autore Howard Shore, Premio Oscar per le indimenticabili colonne sonore de “Il Signore degli anelli”. E a dire il vero rammaricano anche le interpretazioni senza troppe pretese degli attori. Spiace soprattutto per Bryce Dallas Howard (la guardia forestale Grace), figlia d’arte di Ron Howard (Richie Cunningham nell’indimenticabile serie “Happy Days”, per intenderci) il cui talento era stato apprezzato invece nelle pellicole “The Help” (2011) e in “Jurassic World” (2015), solo per dirne alcune.
“Il drago invisibile” (“Pete’s Dragon”) dovrebbe essere il remake del quasi sconosciuto film Disney “Elliott il drago invisibile” del 1977. Remake si fa per dire se si considerano i molteplici cambiamenti operati sulla scenggiatura. La Disney ha rispolverato solo a grosse linee la vecchia storia diretta da Don Chaffey, ma di fatto le pellicole che la fiaba richiama alla mente, per un aspetto o per un altro, sono tante meno quella di cui dovrebbe essere il rifacimento. Il film degli anni ’70 raccontava di un orfanello di paese sfruttato da adulti meschini che aveva per amico un drago in 2D, palesemente disegnato su vetro al limite del ridicolo per gli standard di oggi. Inoltre, in piena regola per il filone di quel periodo, dialoghi recitati si alternavano a canzoni cantate sul classico stile disneyano di “Mary Poppins” (1964) e “Pomi d’ottone e manici di scopa” (1971).
La versione del 2016, invece, ci presenta innanzitutto come protagonista l’ennesimo bambino selvaggio di questa stagione cinematografica (si pensi a Mowgli de “Il Libro della giungla”, sempre firmato Disney, e ai flashback in “The Legend of Tarzan”). Elliott, ringraziando il cielo per il progresso tecnologico, è stato realizzato interamente con le moderne tecniche di computerizzazione e si è scelto di dargli un aspetto che ricorda non poco il simpatico FortunaDrago di nome Falkor de “La storia infinita” (1984). Si presenta come un drago poco pacioccone rispetto alla prima trasposizione, col pellicciotto verde e tanto dissimile dai lucertoloni squamati di Kaleeshi a cui oggi si è abituati negli anni de “Il trono di spade”. Gli autori hanno cambiato anche l’ambientazione storica, seppur conservandola vaga, e addirittura i personaggi. Non ci sono gli ormai datati momenti musical e anche il finale è diverso.
In compenso “Il drago invisibile” si è arricchito di toni più realistici, epici e forse pure un tantino dark. Ha ricavato più spazio da dedicare alle componenti drammatiche e a messaggi nuovi, rendendo il lavoro molto più maturo e adulto. Per questo sembra essere un prodotto quasi del tutto nuovo piuttosto che un ‘ripetitivo’ remake. Da quanto risulta dalle dichiarazioni del regista, le abissali differenze ci sono infatti per volere dello stesso Lowery che desiderava intenzionalmente realizzare un film diverso, privo anche di qualsivoglia omaggio al precedente.
Nella prima pellicola si puntava di più sull’importanza dell’accettazione del diverso. Questo nuovo lavoro non disdegna il valore della convivenza nel nome del rispetto, ma non ne fa il cuore del proprio messaggio. La morale proposta è in primis quella dell’intramontabile importanza della famiglia che la Disney difende dalla genesi, anche a costo di perder magari guadagni proponendo un soldoni “sempre la solita minestra”. Si palpano in più gli attualissimi ideali green, oggi tanto di tendenza. Nobili sia l’interesse ambientalista per la foresta che quello animalista per Elliott stesso come animale da tutelare.
Peccato, come si diceva, per il finale. Se nel ’77 Pete diceva addio a Elliott in una separazione che simboleggiava il passaggio dall’infanzia all’adolescenza, nel 2016 il the end è solo un arrivederci perché Pete potrà andare a far visita a Elliott, ogni volta che vorrà, presso le montagne del Nord dove anche il drago ha trovato dei suoi simili, la sua famiglia.
Così, dopo aver visto tutto il film fra uno sbadiglio e una risata per alcuni momenti di comicità elementare disseminati qua e là, lo spettatore si vede privato anche di un finale che sia veramente commovente e significativo. Per inciso: il prodotto finale non è davvero tanto inguardabile. Anzi, intrattiene. Solo che è banale. Il problema è che dalla Disney ci si aspettava molto di più. Tutto si può dire su “Il drago invisibile” al di fuori che sia un film indimenticabile. Probabilmente sarà arrogante, ma non è così assurdo supporre che anche questo titolo un giorno possa diventare invisibile nella memoria di molti. Come del resto è accaduto già una volta con la prima versione. Purtroppo gioca male la troppa poca magia che si percepisce. Con la speranza che il povero Elliott non ce ne voglia a male.
Di Valentina Mazzella