RECENSIONE – Gli aggettivi da snocciolare per descrivere “Il corvo” del 1994 son davvero tanti: dark, iconico, dannato, malinconico, suggestivo. In breve un vero cult del cinema. Ha influenzato e ispirato generazioni di spettatori e nuovi autori. Da domani nelle sale italiane verrà distribuito, non a caso, un suo reboot, “The Crow – Il corvo” (2024) di Rupert SaSanders. Quindi, prima di approdare alla nuova versione, quale migliore occasione per guardare di nuovo o per la prima volta il grande classico del 1994?
Diretto dalla regia di Alex Proyas, “Il corvo” traeva ispirazione dall’omonimo fumetto di James O’ Barr. Nei panni del protagonista Brandon Lee nella sua ultima interpretazione. È purtroppo noto a molti che l’attore morì nel 1994 proprio a causa di un tragico incidente sul set che, a modo suo, ha contribuito alla celebrità del film.
Brandon era il figlio del mitico Bruce Lee. Rimase ferito da un colpo di pistola mentre giravano una scena. Morì dopo un complicato intervento chirurgico, a tre giorni dalla fine delle riprese. La realizzazione del film fu inizialmente sospesa. Poi, su incoraggiamento della famiglia e della fidanzata dello stesso Brandon Lee, la pellicola fu terminata ricorrendo a effetti speciali e controfigure.
L’evento fu molto incisivo per tutto il mondo del cinema. Seguirono nuove regole imposte legalmente a tutto il settore cinematografico. L’uso di vere armi da fuoco per girare scene fu vietato. Le angolazioni nel puntare l’arma durante le riprese furono regolamentate con precisione. L’opera di James O’ Barr e Alex Proyas ha costituito, dunque, uno spartiacque fra un prima e un dopo anche sotto questo profilo.
“Il Corvo” è un film dalla fortissima identità in termini visivi. Il suo stile gotico e decadente è incredibilmente riconoscibile. Il lungometraggio fu girato totalmente in notturna. I colori tetri come il nero e il grigio si alternano al suggestivo rosso sangue delle sequenze dei flashback. Cromaticamente “Il corvo” grida rabbia, vendetta, dolore. Il tutto coronato da colonne sonore che accompagnano con eleganza il pathos.
La sceneggiatura è in realtà molto semplice. La storia racconta di un protagonista accecato dalla vendetta per l’omicidio della fidanzata. I temi affrontati sono l’amore, la morte, la violenza. Il montaggio ha una resa notevole. Eppure la storia non dà tanti spunti per empatizzare veramente con il personaggio di Brandon Lee. La narrazione ha risvolti sovrannaturali, ma non offre particolari risposte e spiegazioni a dubbi e perplessità. Non c’è un’autentica riflessione nemmeno sulla differenza tra vendetta e giustizia. La vera perla donata al pubblico resta la memorabile citazione “Non può piovere per sempre”: barlume di speranza in un racconto sul male e le brutture del mondo.
Di Valentina Mazzella