RECENSIONE – È indubbiamente meraviglioso tornare a leggere di gufi, Strillettere, cicatrici che bruciano, studenti di magia e streghe che viaggiano attraverso i camini. Innegabile. Pertanto altrettanto magnifico è assaporare l’ultimo spunto narrativo partorito dalla mente della carissima J.K. Rowling. Opportunità imperdibile per qualsiasi appassionato della saga, per qualsiasi fan degno di questo nome.
Ma che dire in aggiunta volendo esprime un giudizio? Un giudizio che sia obiettivo, onesto, critico, ma non troppo? Una storia che campa palesemente di nostalgia ed eredità, ma non per questo una storia non godibile. Questa è forse la definizione più immediata e coincisa per descrivere “Harry Potter e la maledizione dell’erede” (edizione Salani), lo scriptbook dell’omonimo spettacolo teatrale di John Tiffany e Jack Thorne. L’idea trae linfa vitale da un soggetto originale di J. K. Rowling e fin dalle primissime righe, sebbene si tratti di indicazioni di servizio per comunicare brevemente l’ambientazione agli attori e alla regia, il lettore non può fare a meno di commuoversi catapultato nuovamente a King’s Cross sul binario 9 e 3/4.
Come già è stato ampiamente reso noto da tempo, “Harry Potter e la maledizione dell’erede” non è un romanzo. È un semplice copione composto esclusivamente dai dialoghi dei personaggi e dalle didascalie strettamente necessarie. Il tutto si divora in poche ore e dà per scontato che il lettore abbia ovviamente letto tutta la saga del maghetto più celebre di sempre che precede gli eventi narrati. Si diceva infatti che la storia viva di eredità. Lo fa su molteplici piani: per il contenuto, il successo e soprattutto per quanto riguarda l’immaginario visivo. Inutile infatti precisare innanzitutto che l’uscita del libro cerchi di sfruttare ancora, dal punto di vista delle vendite editoriali, la gallina dalle uova d’oro che Il-Ragazzo-Che-È-Sopravvissuto si è rivelato essere negli anni. E altrettanto scontato è far notare come ad alimentare il suddetto mercato siamo stati tutti noi lettori nostalgici di Hogwarts e dell’intera comunità magica.
Essendo però il libro spoglio di parti narrative (descrizioni, flusso dei pensieri etc.), succede che mentalmente il lettore debba riciclare l’immaginario che i vecchi libri gli hanno regalato. Ecco allora che la sala comune di Grifondoro e lo studio della Preside non vengono mai descritti. Ciononostante tutti ne abbiamo perfettamente nitida l’immagine nella testa, memori delle passate amate letture.
Nota dolente forse la scelta nella traduzione, curata da Luigi Spagnol, di conservare in Italiano gli originali nomi inglesi di alcuni personaggi. Leggeremo dunque della professoressa Minerva McGonagall (M. McGranitt) e di Neville Longbottom (N. Paciock), pur tuttavia continuando a chiamare Silente il Preside Albus Dumbledore e Piton il professor Severus Snape. Chiaramente sarebbe stato meglio non operare traduzioni e adattamenti dei nomi a favore dei cosiddetti nomi parlanti fin dalle origini, fin dalle primissime edizioni – fatto di cui Spagnol non ha avuto illo tempore alcuna responsabilità. Solo che, se già il ritorno ai nomi originali oggi confonde abbastanza i lettori, ancor di più destabilizza la scelta mista e a metà strada che invece è stata operata.
Per il resto la trama è creativa, pur restando molto lineare e senza troppe diramazioni. Tutti i personaggi che abbiamo imparato ad amare pagina dopo pagina, a distanza di diciannove anni, ci appaiono nelle loro versioni adulte esattamente come ce li aspettavamo. Fatta forse eccezione per Ron Weasley, a proposito del quale, se è concessa un’anticipazione, non si capisce la ragione per cui non abbia intrapreso la carriera da Auror come sognava di fare da ragazzo; mestiere di cui in tante avventure, goffaggine a parte, ha tanto dimostrato di avere la stoffa.
Forse troppo semplicistici gli espedienti trovati dagli autori per dare una soluzione ai problemi e poco curato il doppio gioco dei personaggi-rivelazione. Eppure negli anni la Rowling ci ha sempre dimostrato di essere la regina in questo. Basti pensare a Piton per eccellenza, ma anche al professor Raptor nel primo libro, al sosia di Malocchio Moody nel quarto e addirittura alla vecchia signora Figg di Privet Drive che nel quinto episodio si scoprì essere una magonò fra i babbani. In “Harry Potter e la maledizione dell’erede” sembra che le rivelazioni non siano del tutto imprevedibili come è sempre stato, come siamo stati abituati. E poi ci sarebbero degli interrogativi su delle incongruenze di logica che nella storia è possibile riscontrare rispetto agli standard della saga. Basti pensare già alla sola idea che possa esistere un erede di Voldemort – e quindi di colui che voleva esistere in eterno e che negava l’esistenza dell’amore – e al concetto di profezia che è stato particolarmente arronzato a trecentosessanta grandi.
In conclusione “Harry Potter e la maledizione dell’erede” è una sorta di fanfiction, sebbene il soggetto sia della stessa Rowling. Scritta bene e particolarmente notevole, ma non di più. Soprattutto non strettamente necessaria alla saga, nel senso che non la completa. Le conferisce solo un valore aggiunto che qualsiasi appassionato non potrà perdersi per riabbracciare Harry, Ron ed Hermione. Un buco della serratura per spiare i propri eroi e vedere in che modo siano cresciuti. La curiosità è difficile da gestire, si sa. Una Passaporta come un’altra per tornare almeno con la fantasia a camminare nei corridoi di Hogwarts sotto lo sguardo di quadri animati, facendo attenzione a non incrociare Gazza, Pix o un Prefetto fuori dagli orari concessi.
Di Valentina Mazzella