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Il Giorno della Memoria è davvero utile o è solo una banale ipocrisia?

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Di Valentina Mazzella

Se c’è una cosa davvero difficile da fare è sedersi davanti a una pagina bianca e scrivere qualcosa per commemorare il Giorno della Memoria che non sia già stato detto, scritto o pensato. Si fa presto a mettere assieme le solite frasi che ci propiniamo annualmente in questa data, quelle frasi che puzzano di retorica e banalità in ogni loro sillaba. A furia di masticare sempre le stesse parole, i vocaboli hanno perso sapore e consistenza. Alle volte sembra che non abbiano più senso. Si presta loro poca attenzione perché si crede presuntuosamente di conoscerle già, di averle ‘interiorizzate’ abbondantemente. Perciò si vorrebbe al contrario buttar giù qualche opinione illuminante, magari una riflessione mai pensata da altri… Tuttavia il punto è: ci potrebbe mai essere qualcosa di nuovo da dire in merito? Da anni ripetiamo sempre le stesse cose perché in fondo la società non è cambiata, non è nuova. E sebbene si diano per scontati certi principi e valori di uguaglianza e fratellanza, di fatto non lo sono per niente considerando che purtroppo ancora non sono condivisi da tutti o comunque in larga scala. Lo dimostrano il grado di invivibilità e inciviltà di determinati contesti, il livello di emarginazione di alcune minoranze, la malinconia delle storie di innumerevoli persone.

Oggi accendiamo la televisione e sentiamo dei politici ancora usare termini abiurati dalla scienza come “razza”. Entriamo sui social e leggiamo utenti scrivere che è fattibile ipotizzare che Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz, sia stata nominata Senatrice a vita probabilmente “grazie al favore di qualche lobby semita”. Sediamo in una sala d’attesa o sulla panchina di una fermata dell’autobus e ascoltiamo la gente lamentarsi dei salvataggi in mare degli immigrati in fin di vita o esprimere giudizi contro la signora di passaggio che indossa il velo. Ci informiamo sulle notizie recenti dai media e apprendiamo come sia tornato di moda fra i teppisti vandalizzare edifici disegnando svastiche su pareti e suppellettili. Rendiamoci conto che viviamo in un’epoca in cui il calcio ha dovuto portare Il Diario di Anna Frank in uno stadio perché delle tifoserie avevano usato la foto di una ragazzina morta in un campo di concentramento per beffeggiare gli avversari: un episodio che ha indignato gli Italiani per i suoi cinque minuti e poi è caduto nel dimenticatoio come tanti altri argomenti di cronaca e attualità. Eppure io alle volte, quando scorgo la copia del suo libro sullo scaffale della mia libreria, ancora ci penso e mormoro mentalmente: “Anna, Anna… povera Anna! Chi l’avrebbe mai detto che saresti diventata un simbolo ancora più forte proprio in questi anni…”. Un simbolo di cosa? Forse “campanello d’allarme” è l’espressione migliore. I recenti continui attacchi al suo ricordo costituiscono l’emblema della fase storica difficile che stiamo attraversando. Siamo di fronte a tanti accaduti che messi assieme come le tessere di un mosaico ci gridano solo una cosa, la peggiore delle probabilità che potesse capitarci: stiamo vivendo in un presente che dimentica il passato. Un presente che rifiuta il passato. Un presente che addirittura lo rinnega.

Ogni anno ci ripetiamo sempre la stessa solfa semplicemente perché nulla cambia, il mondo non migliora. E allora vuol dire che ci sia ancora bisogno di rimarcare certi concetti… perché non si tratta solo dell’Olocausto di un popolo che ha sofferto nella prima metà del secolo scorso. Si commemora la Shoà perché c’è l’esigenza di custodire il ricordo di tutto l’orrore  e l’abominio di cui l’essere umano è capace. Perché, oggi che il disgustoso scempio di una dilagante meschinità non cessa di esibirsi attraverso manifestazioni di razzismo, discriminazione, intolleranza, odio e avidità di varia natura, è necessario più che mai non dimenticare. Perché è stancante constatare giorno dopo giorno il cumulo di complottismi, fandonie e calunnie in cui il web riesce ad affondare inevitabilmente come nelle sabbie mobili. È estenuante ascoltare le persone vomitare quotidianamente pregiudizi e accuse di moralismo e ipocrisia per non ammettere la propria insensibilità. C’è una cura a tutto questo? Non lo so. Nessuno lo sa con certezza. E non saperlo è avvilente. Si dice che una soluzione sia la scuola e forse è vero o comunque, in ogni caso, è l’unica speranza che ci è concessa: la scuola che educa alla legalità, la scuola che educa alla convivenza e alla tolleranza, la scuola che insegna la Storia scritta vagliando fonti attendibili, la scuola che ti educa al confronto con l’altro e ti apre gli orizzonti, la scuola che ti insegna ad avere uno spirito critico e a non smettere mai di porti domande, la scuola che ti educa a essere il cittadino del domani. Quel cittadino che un giorno, ci si augura, voterà e sarà capace di dar fiducia a una classe politica migliore di quella di oggi.

Oggi però resta il problema che il Parlamento che ci ritroviamo, tutto sommato, non sia altro che lo specchio del popolo che è chiamato a rappresentare, che ci piaccia o no ammetterlo. Resta il problema che la scuola italiana come agenzia educativa sia a dir poco alla frutta nella maggior parte dei casi. Resta il quesito: chi educa chi non è più in età scolastica? Piacerebbe rispondere che la difficoltà sia solo nello sforzo delle nuove generazioni di educare le vecchie, ma non è vero. Siamo ancora all’inizio anche con le più recenti annate generazionali se analizziamo i motivi di emarginazione alla base del bullismo e fenomeni simili. E allora, di nuovo, non ci resta che ripeterci. Ripeterci, ripeterci e ripeterci ancora. Eppure non basta. Le parole dette, ascoltate, lasciate a deposito in fondo alla coscienza e non messe in pratica fanno la fine dei vestiti lavati e lasciati in lavatrice invece di essere stesi al sole: fanno la muffa, emanano fetore, non servono a niente anche se inizialmente puliti. Quest’anno, pertanto, per una volta sarebbe bello non fermarsi alle ovvietà di cui è pieno zeppo anche questo articolo. Potremmo non versare solo qualche lacrimuccia guardando in tv “La vita è bella”, “Schindler’s List”, “Il pianista”, “Il bambino con il pigiama a righe” o chi per esso, ma provare a dare una risposta a un quesito. Alla domanda: “Ditemi, dov’era Dio ad Auschwitz?”, il poeta William Clark Styron ribatteva con una seconda domanda: “E l’uomo, dov’era?”. Nel 2018, apprendendo quello che avviene nelle nostre città e in tanti Paesi del mondo, quella domanda, “Dov’è l’uomo?”, ancora ci pesa sul cuore. Un domani, non troppo lontano, sarebbe bello ritrovare la nostra umanità e poter rispondere finalmente: “È qui”.

 

 

 

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