NAPOLI – A distanza di oltre una settimana dalla fine del Festival di Sanremo 2024, non si spengono le polemiche sul secondo posto di Geolier. Negli ultimi giorni anche il celebre Roberto Vecchioni, detto “professore”, ha difeso il giovane cantante di Secondigliano durante la trasmissione “In altre parole” condotta da Massimo Gramellini su La7. Vecchioni ha spiegato: «Innanzitutto Geolier ha cantato una canzone non semplice. Se qualcuno ha capito il testo, lì si tratta di “ognuno va per la sua strada perchè pur amandoci non ci capiamo”, e non è un tema proprio facile, è un tema importante, sono cose notevoli».
Nonostante sia originario di Carate di Brianza, Vecchioni non si è risparmiato anche dallo spendere delle parole in difesa della città partenopea: «C’è invidia verso Napoli perché Napoli era un Regno già nel Milleduecento, mentre altrove si pascolavano capre. Una delle città più immense del mondo. Ha inventato la musica, questo modo di esprimersi. Ha avuto tutte le dominazioni. Potevano morire da un giorno all’altro, invece sono diventati napoletani fortissimi, eccezionali, fantasiosi, meravigliosi e fanno conoscere l’Italia. Io amo Napoli. I miei genitori sono napoletani, ma anche se non lo fossero, direi le stesse cose. Tutti conoscono l’arte di Roma, ma andate a vedere cosa c’è a Napoli».
Quanto osservato dal professor Vecchioni è innegabile. Così quanto il talento e il successo del giovane rapper. Tuttavia altrettanto indiscutibile è il modo in cui tantissimi fan e non fan campani si siano aggrappati alla speranza della sua possibile vittoria supportandone non tanto il merito quanto, invece, la provenienza geografica. Intraprendendo una guerriglia contro una presunta discriminazione, prima ancora che ce ne fossero le avvisaglie, si è realizzata una profezia che si autoavverra. Vittima di questo medesimo cortocircuito è stato poi lo stesso Geolier, diventando bersaglio dei media e di domande scomode.
Dinnanzi al fervore tipico dell’impeto partenopeo, tornano sempre alla mente alcune considerazioni scritte da Pier Paolo Pasolini per Ghirelli e pubblicate in “La napoletanità” (Società editrice napoletana) nel 1976. Leggiamo: «(…) Io so questo: che i napoletani oggi sono una grande tribù che anziché vivere nel deserto o nella savana, come i Tuareg o i Beja, vive nel ventre di una grande città di mare. Questa tribù ha deciso – in quanto tale, senza rispondere delle proprie possibili mutazioni coatte – di estinguersi, rifiutando il nuovo potere, ossia quella che chiamiamo la storia o altrimenti la modernità. La stessa cosa fanno nel deserto i Tuareg o nella savana i Beja (o fanno anche, da secoli, gli zingari): è un rifiuto, sorto dal cuore della collettività (si sa anche di suicidi collettivi di mandrie di animali); una negazione fatale contro cui non c’è niente da fare. Essa dà una profonda malinconia, come tutte le tragedie che si compiono lentamente; ma anche una profonda consolazione, perchè questo rifiuto, questa negazione alla storia, è giusto, è sacrosanto».
I Napoletani sono da sempre profondamente orgogliosi della propria identità e delle proprie origini. Nutrono un sentimento viscerale simile al patriottismo che gli stessi Italiani, dal 1861 ad oggi, non hanno, invece, maturato come si deve. In questo senso i Napoletani, sì, sono ancora una tribù nell’accezione positiva del termine. Non si mescolano. Non diluiscono la propria essenza. Sempre riconoscibili e fieri del proprio essere, supportano anche ad occhi chiusi chiunque condivida le stesse radici e divulghi la cultura partenopea nel mondo. Ed è forse questa una delle forze della città: più abbagliante della bellezza del suo golfo, più focosa della quiete del Vesuvio.
Di Valentina Mazzella