Home Napoli Caro Massimo Giletti, vieni a vedere perché.

Caro Massimo Giletti, vieni a vedere perché.

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Napoli – Quando si chiama in causa l’aggettivo “indecoroso” e lo si punta contro qualcosa, la reazione di chi quel qualcosa lo tiene a cuore e ne perora la causa è inevitabile.Oggi basta entrare in un bar, approcciare un discorso con il vicino che insieme a noi aspetta il pullman sotto la pensilina da tre quarti d’ora, per capire che l’aggettivo in questione può essere catapultato a destra e sinistra in una frazione di secondo e chiamare in causa gli interpreti più disparati.
A Napoli, come in tutta Italia, le statistiche parlano chiaro.
Si parte dalla classe politica, si passa alla squadra del cuore fino, ad arrivare ai più attenti. Quelli che scavano il pelo nell’uovo tirando in ballo le amministrazioni comunali e tutti i progetti mancati che si portano dietro.
Quelle amministrazioni che prima dicono state tranquilli, “scassiamo tutto”, e poi fabbricano piste ciclabili dipingendo forme di biciclette sui marciapiedi di via Toledo.
Ma il ciclista deve fare il ciclista, o imitare Alberto Tomba in uno slalom selvaggio in quella fiumana di gente che gira per i negozi?
E se questo ciclista da via Toledo, un bel giorno, se ne volesse andare a Piazza Dante a rendere omaggio al Sommo Poeta, saprebbe di dover essere consapevole del fatto di potersi ritrovare a pedalare gambe all’aria al Pronto Soccorso del Cardarelli?
Nella mia Napoli, per ogni ciclista che deve scendere a patti con i motorini che gli sfrecciano accanto, ci sono altre dieci persone che lo fanno con un parcheggiatore con la “licenza speciale” e altre venti con un passante che gli butta la spazzatura davanti agli occhi direttamente dalla macchina in corsa.
Non serve addentrarsi nei tecnicismi dei servizi che non ci vengono offerti per capire che il termine indecoroso possa scalare le gerarchie del linguaggio parlato di tutta Napoli ed estendersi in ordine sparso a tutto il Bel paese con la semplicità di una fumata di sigaretta.
Sono chiamato a seguire l’Arena di Giletti tutte le domeniche a pranzo perché la nonna non si spinge oltre il primo canale.
Posso dire che non mi allieta la Genovese, che preferirei Magalli e l’orchestra di Demo Morselli che mi accompagnava prima dei consigli per gli acquisti del Maurizio Costanzo Show, ma quella è un’altra storia.
Vi renderete conto che ho avuto modo di seguirla anche domenica scorsa. E il nostro tanto amato aggettivo, è saltato alla bocca del conduttore nel bel mezzo di una tempesta indecorosa, fatta di assessori che portavano avanti un diritto nuovo per la legge italiana e i regolamenti comunali: il diritto di entrare gratis allo stadio proprio perché rappresentanti della collettività. La stessa collettività chiamata agli slalom delle piste ciclabili e dei soggiorni a mezza pensione sotto le pensiline dei mezzi pubblici, per intenderci.
Quello che un giornalista della Rai non può sapere, invece, è che nella mia città tutti questi compromessi sono consuetudine da secoli.
Che è difficile da ammettere, ma che guidiamo meglio in mezzo ai vicoli della Sanità che nei viali larghi di Trieste. Perché lì, a Trieste, ci sono troppe strisce a terra da interpretare.
Attaccarsi ad un aggettivo dalla accezione negativa non deve scalfire il cuore di una città che batte da secoli in direzione ostinata e contraria, con lo spirito di un caratterista figlio delle commedie di Eduardo e della napoletanità del professor Bellavista nella Napoli-Napoli di Luciano De Crescenzo.
È vero, la Stazione Centrale, quella che i nostalgici non smetteranno mai di chiamare Ferrovia, oggi si veste di una modernità che non le appartiene.
Lo dicono tutti quelli che come me, prima di attraversarla direzione Corso Umberto, si fermano da Attanasio e si mangiano una frolla.
Che tornano indietro perchè la frolla, senza il caffè del Bar Mexico, in quel crogiuolo di vite che tirano a campare, non è la stessa cosa.
Ho sentito raccontare di quella piazza dai miei nonni che la attraversavano ogni giorno per andare al Porto e ho potuto riviverla quasi allo stesso modo perchè così è rimasta.
Tanti vicoli stretti, tante persone dalle facce nere, quasi senza identità, che finiscono per morire lì, nei vicoli che la circondano.
Eterni Don Chischiotte contro i mulini a vento e personaggi in una costante, disperata, ricerca d’autore.
Che sfuggono allo sguardo attento di chi li osserva in sella al suo cavallo.
Perchè lì, in quella piazza, non c’è lo Stato. C’è la Statua di Garibaldi.
Poi c’è chi da quei vicoli esce e tenta la fortuna, prova a guadagnarsi la giornata.
Le tre carte, i paccotti, le passeggiatrici che ti fanno l’occhiolino dall’alto del loro palcoscenico, il marciapiede.
Sempre lì, immobile perchè immobile è il degrado che le ha sempre fatto da cornice.
Immersa in quei palazzoni grigi che gridano alla depressione ma che comunque tendono a creare uno stile. Tetro, ma pur sempre uno stile.
Ci sono milioni di persone che inneggiano a Dario Argento, non vedo perchè debbano svalutare l’essenza della Ferrovia.
Una delle poche piazze capaci di creare angoscia e trasformarla in sentimento.
Lo stesso sentimento di chi la sua vita la vive da scontento, ma continua ad attraversarla tutti i giorni.
Di chi si mescola alle giacche e cravatta, che prima le chiama “dottò” e poi gli dice “me lo fate prendere un caffè?”.
Siamo tutti dottori per gli abitanti della Ferrovia.
Inestimabili appartenenti ad una vita ultraterrena che per loro è così irraggiungibile, da spronarli a continuare a viverla tutte le mattine.
È la lampadina che illumina la loro esistenza prima di spegnersi la sera, di ritorno nel vicolo che lampadine non ne ha.
Non dimenticherò mai i barboni che mi salutavano alle sei del mattino, quando io inseguivo il sogno della Capitale e loro il compagno per prendersi a mazzate.
La Ferrovia vive dei nostri occhi e dei sogni che le regaliamo tutte le volte che le passiamo davanti, rifiutando un pacco di calzini e comprando un accendino.
La Ferrovia è la vita alla quale nessuno di noi potrà mai voltare le spalle.
Io non lo farò mai, noi non lo faremo.
Caro Massimo, noi ci proviamo pure a ribellarci al tempo che avanza.
Ad andare a Milano a saggiare il progresso e mettere la munnezza nei sacchetti della differenziata.
Ci vestiamo a festa ma poi alla fine torniamo sempre da Lei.
Da quella Napoli-Napoli che non morirà mai.
Si, proprio noi. Quelli che l’unica cosa che si rimproverano in questa lettera, è l’aver scritto Corso Umberto al posto del “Rettifilo”.

Di Jacopo Menna

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