NAPOLI – Un film completo. Sì, completo è la parola giusta per descrivere il recente successo “Lo chiamavano Jeeg Robot” con la regia di Gabriele Mainetti e la sceneggiatura di Nicola Guaglianone e Menotti. Un film che non disdegna componenti d’azione, di genere gangster all’italiana, momenti drammatici, scene divertenti e romantiche, allusioni erotiche, tematiche disparate e magari anche i classici cliché, ma senza che stanchino lo spettatore. Addirittura compaiono immagini di sangue un po’ trash che tuttavia non scadono nel ridicolo, ma ricordano qualche tacchetta al di sopra del vagamente lo stile del regista americano Quentin Tarantino. Abbondanti i riferimenti alla cultura dei manga e degli anime giapponesi – inutile dirlo se si considera già solo il titolo – e alle storie dei supereroi americani che in parte bonariamente burla, ma di cui sostanzialmente rispetta i codici e le linee guida. Soprattutto però “Lo chiamavano Jeeg Robot” è il film che ha riconfermato come anche il cinema italiano possa realizzare pellicole sui supereroi. Buone pellicole sui supereroi.
L’aveva del resto già dimostrato Gabriele Salvatores con “Il ragazzo invisibile” nel 2014, optando tuttavia per un’ambientazione che “non fosse italiana in maniera lampante”. Non a caso il regista al pubblico del Napoli Comicon 2015 aveva confessato di aver scelto come location Trieste perché riteneva fosse “la meno italiana fra le città italiane”. “Il ragazzo invisibile” sarebbe potuto essere stato tranquillamente girato in qualsiasi altro posto nel mondo. L’ambientazione non era particolarmente vincolante per la trama.
Al contrario “Lo chiamavano Jeeg Robot” di Gabriele Mainetti con il suo Colosseo, le acque del Tevere, i dialoghi in romanesco, le partite Roma-Lazio e le riprese dall’alto della Città Eterna si propone al mercato del cinema come un film spiccatamente italiano al cento per cento.
Ottima dunque la riuscita del prodotto che ha vinto ben sette premi David di Donatello ed è stato accolto nelle sale con un’approvazione superiore alle aspettative grazie al passaparola. Il tutto nonostante il budget di partenza per la produzione fosse abbastanza basso. Sono queste le ragioni che rendono “Lo chiamavano Jeeg Robot” motivo di orgoglio per il cinema italiano, o meglio una vigorosa fonte che alimenta la speranza che le produzioni tricolori possano aprire i propri orizzonti anche a generi diversi. Senza “scopiazzare”, ma importando idee d’oltreoceano per impastarle in maniera nuova secondo i costumi nostrani. Si pensi al ruolo della criminalità organizzata italiana e alla critica contro l’impatto dei mass-media e dei social sulla società che sono presenti nella trama.
E proprio su questi argomenti si è discusso sabato 23 aprile presso l’Auditorium della Mostra d’Oltremare, quando in occasione del Napoli Comicon 2016 è stata proposta una nuova proiezione del film seguita da un incontro con il regista Gabriele Mainetti. Anche semplicemente dai quesiti posti dai presenti in sala è emerso come il pubblico italiano sia troppo predisposto a idealizzare Hollywood anche a discapito, sebbene spesso in buona fede, del Made in Italy. Alle domande di chi chiedeva quali attori statunitensi Mainetti avrebbe scelto se ne avesse avuto l’opportunità economica, un’altra voce in sala ha risposto giustamente come sarebbe più corretto iniziare a cambiare forma mentis proponendo ad esempio a noi stessi di esportare all’estero i nostri attori. Del resto eccellenti le performance recitative di Claudio Santamaria nei panni del protagonista Enzo Ceccotti e quella di Ilenia Pastorelli nelle vesti di Alessia (tanto criticata per il suo passato da concorrente di reality che tuttavia non le ha impedito di vincere il meritato riconoscimento come Miglior Attrice Protagonista ai David di Donatello). Senza contare la scenica recitazione di Luca Marinelli nel ruolo dello Zingaro che, ispirandosi all’interpretazione di Ted Levine in “Il silenzio degli innocenti”, ha dato vita a un buon cattivo ecclettico un po’ in stile Joker di Batman.
Non a caso quindi Mainetti ha raccontato della lunga epopea che ha attraversato per poter finalmente realizzare questo film, di come i produttori rifiutassero la sua sceneggiatura perché “inadeguata per il cinema italiano che dovrebbe dedicarsi solo alle commedie”. Tutto sommato si può dunque dire che ci sia stato qualcosa di eroico anche nel modo in cui il progetto è stato portato avanti nonostante le molteplici avversità. Ebbene, forse sarebbe il caso che si cercasse di uscire fuori dagli stereotipi che spesso noi per primi ci cuciamo addosso. In Italia abbiamo tanta creatività. C’è bisogno solo di più fiducia nelle proprie possibilità. E soprattutto di audacia, audacia nello sperimentare, nell’azzardare. Qualcuno da qualche parte dovrà pur cominciare se si desidera spaziare fra nuovi format. Magari non si può pretendere di raggiungere subito alti livelli – anche se non è detto – e di certo non bisogna accontentarsi. Cercare sempre di migliorarsi di volta in volta è fondamentale, ma per il resto non c’è che dire: quanto a supereroi “Lo chiamavano Jeeg Robot” è davvero un gran bell’inizio entusiasmante, di quelli che danno la carica e infondono coraggio.
Di Valentina Mazzella