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“Iddu – L’ultimo padrino”, con Elio Germano e Toni Servillo il film su Matteo Messina Denaro che finalmente non esalta la mafia

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RECENSIONE – “Iddu – L’ultimo padrino” è un film lentissimo quanto la vita di un latitante. Non il solito gangster movie su Cosa Nostra e la criminalità organizzata a cui siamo stati abituati guardando altre pellicole su Totò Riina, Provenzano o Buscetta. Il lungometraggio è un giallo che si sviluppa a passo trattenuto. Niente azione, niente colpi di scena.

Il titolo suggerisce si tratti di un biopic su Matteo Messina Denaro, ma in realtà il boss non è la figura protagonista della trama. La storia sembra ruotare piuttosto attorno a lui, dando progressivamente maggiore spazio ad altri personaggi. Ad esempio al preside Catello Palumbo, colluso con la mafia e padrino di battesimo di Messina Denaro.

Soprattutto “Iddu – L’ultimo padrino” sceglie di non avere un taglio documentaristico. Il film sfrutta i fatti di cronaca come punto di partenza per tessere una sceneggiatura che ricama con la fantasia gli eventi ambientati soprattutto negli anni Duemila. Lo spettatore viene avvisato fin dai primissimi fotogrammi. Lo stesso boss non viene mai indicato con nome e cognome. Viene chiamato da tutti solo Matteo o “Iddu”. Gli occhiali da sole, il metodo dei pizzini con cui continuava a controllare gli affari, le innumerevoli citazioni bibliche e letterarie sono solo alcuni degli indizi che accostano, in maniera incontrovertibile, “Iddu” a Messina Denaro.

La narrazione è frammentaria, episodica. Inoltre infarcita di simbolismi, spesso onirici o kafkiani, non di immediata interpretazione. Il tutto contribuisce ad appesantire parecchio il racconto. “Iddu – L’ultimo padrino” è forse un film più adatto al piccolo schermo che alle grandi distribuzioni al cinema, una fiction da guardare in prima serata in un giorno infrasettimanale.

Oppure la resa finale, tra uno sbadiglio e un’occhiata all’orologio, è un effetto volutamente perseguito dagli autori per mostrare quanto noiosa e miserabile sia la vita dei latitanti. In quest’opera non vi è alcuna ombra della pericolosa esaltazione della criminalità in cui molte rappresentazione cinematografiche si sono impelagate. Pensiamo a esempi colossali come la celeberrima saga de “Il padrino” con Al Pacino. Ricordiamo il successo della serieTV statunitense “I Soprano” e le accuse di istigazione all’emulazione mosse al fenomeno italiano “Gomorra”.

In “Iddu – L’ultimo padrino” non vi sono sparatorie o scene di eccessiva violenza. Lo scopo di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, che hanno scritto e diretto il film, forse è stato proprio il seguente: mostrare la pochezza dell’esistenza dei grandi boss, dei latitanti. In quest’ottica molto incisiva è una frase che Matteo dice a proposito di suo padre: “Sei morto in mezzo alle pecore e io sto vivendo come un sorcio”. Parole esaustive che non hanno bisogno di ulteriori spiegazioni. Nel film i mafiosi vengono ridotti a macchiette di se stessi, dispersi “da qualche parte in Sicilia”.

La superba interpretazione di Elio Germano, nei panni di Matteo Messina Denaro, ha senza dubbio contribuito a raggiungere questo esito. Anche l’impeccabile recitazione di Toni Servillo ha conferito un humor grottesco alla storia. Due attori, due nomi, una garanzia. Spiace forse che i personaggi non decollino del tutto assolutamente non per un loro limite, ma per la stesura del copione che sembra non dare loro lo spazio adeguato per svilupparsi pienamente. Nel cast brillano altri nomi – alcuni già noti volti Rai – come Giuseppe Tantillo (un convincente ingenuo genero di Toni Servillo), Vincenzo Ferrara (assessore) e la brillante Antonia Truppo (l’altera e rancorosa sorella del boss). Pregevoli le musiche di Colapesce.

Attraverso il personaggio di fantasia della poliziotta Rita Mancuso (Daniela Marra) e ai suoi dialoghi con altri colleghi delle forze dell’ordine, “Iddu – L’ultimo padrino” manifesta la perplessità che si è insinuata nell’opinione pubblica da molto tempo. Fatti alla mano, Matteo Messina Denaro è stato arrestato il 16 gennaio del 2023, dopo trent’anni di latitanza. Con immenso stupore collettivo, si è subito scoperto che il boss non fosse davvero difficile da rintracciare come a lungo si è creduto. Domanda sollevata all’unanimità: com’è stato possibile che le indagini non siano mai riuscite a condurre polizia e carabinieri da lui? Il film non esclude che nello Stato ci fossero infiltrazioni determinate a fingere di non sapere per non agire. Messaggio e riflessione amara per un film pungente in molti suoi spunti.

Di Valentina Mazzella

 

 

 

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