“La madre è una serva che non serve” è un’espressione che, negli anni, ho sentito spesso. Una battuta simile è pronunciata da Eduardo De Filippo in “Natale in casa Cupiello”, ma è anche una frase ripetuta alle volte dalle mamme esasperate ai figli. Mi è tornata in mente proprio ieri quando – era prevedibile – è scoppiata una grande bufera per lo spot elettorale di un candidato di Forza Italia. In vista delle prossime elezioni del 25 settembre, il senatore toscano Massimo Mallegni promette uno stipendio e una pensione per le casalinghe. Nel video il politico parla tra due attrici: una passa l’aspirapolvere, l’altra finge di essere incinta mentre stira. Al di là dei contenuti esplicitamente sessisti, lo spot è imbarazzante anche solo per la recitazione e il montaggio.
Oggi non mi interessa tanto scomodare la guerra di genere, il femminismo, la lotta al patriarcato, il sessismo o gli stereotipi degli anni Cinquanta. Mi spiace. Sono temi importanti e necessari da affrontare per costruire una realtà più paritaria: su questo non ci piove. Tuttavia in questa occasione forse sarebbe il caso di accendere il focus anche su altri aspetti. Vorrei parlare di concetto di lavoro, di economia spicciola e di denaro. Soprattutto di denaro. È troppo poco ideologico discutere di soldi? Non importa. Bisogna essere anche pragmatici.
Innanzitutto sono molteplici le perplessità che, ahimè, possono essere condivise solo con una serie di domande a raffica: propriamente chi è la casalinga? Una donna sposata con figli che si dedica alla casa, va bene… Una donna single che non è madre e vive da sola può essere anche lei considerata casalinga? Una donna che vive da sola con i genitori senza lavorare può definirsi anche lei casalinga? Se trascorrono del tempo in casa occupandosi delle faccende domestiche e non hanno occupazione, non lo sono? Propriamente tutte le donne disoccupate potrebbero avvalersi del titolo di casalinga? Quali sarebbero nello specifico i parametri per stabilire l’identificazione di una vera casalinga? Le stesse per il Fondo Pensione per le casalinghe all’Imps? Mancano innumerevoli delucidazioni.
“Occuparsi della famiglia sette giorni su sette non è un lavoro?” chiede il senatore Mallegni nello spot: assolutamente sì! Negarlo è becero. Spesso le casalinghe a tempo pieno sono molto più indaffarate di chi lavora fuori casa otto ore al giorno. Di fatto perché si fanno carico di responsabilità e impegni senza limite di tempo, con l’aggiunta di un immenso carico mentale nella gestione della casa e della famiglia che le prosciuga. Nessuno mette in discussione questa verità. Nessuno mette in dubbio il valore e la dignità delle donne che scelgono serenamente di dedicarsi alla famiglia a tempo pieno. Tuttavia vanno considerati alcuni aspetti altrettanto veri se si desidera non essere ipocriti unicamente per strumentalizzare la causa e racimolare voti.
Il lavoro delle casalinghe concretamente, nel bilancio di una Nazione, non produce nulla. Non è inserito in un mercato economico regolato dalla domanda e dall’offerta. A meno che non si voglia ufficialmente riconoscere che, con il matrimonio o la convivenza, la moglie o il marito che resta in casa diventi a tutti gli effetti legalmente una colf o un domestico personale. Potremmo scherzare: gli altri membri della famiglia sarebbero poi autorizzati a non alzare più in dito in casa? Del resto in casa c’è una persona retribuita appositamente per lavare i piatti e i vestiti sporchi…
E chi lavora invece? La donna e l’uomo che lavorano, al rientro in casa, non devono ugualmente occuparsi della casa e dei figli? Non è detto che tutti gli stipendiati si avvalgano dell’aiuto di babysitter o colf per gestire l’ambiente familiare. Magari, nonostante i due stipendi, non ne hanno ugualmente la possibilità. E non esistono gnomi magici che lavino i pavimenti al posto loro di notte. Non è raro che una donna lavoratrice si veda costretta a conciliare lavoro e attività casalinghe con meno tempo a disposizione. La soluzione sarebbe davvero disincentivare il lavoro? Regalare alle persone una somma di denaro che la propaganda chiama falsamente “stipendio”?
Nel film “Palombella rossa” Nanni Moretti affermava: «Chi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti!». Ecco. Senza voler esprimere un giudizio netto sulla proposta, osserviamo almeno che parlare di “stipendio” sia ipocrita. È corretto chiamare le cose con il proprio nome: sussidio. La proposta di un reddito per le casalinghe – giusta o sbagliata che sia – è la proposta di un sussidio statale. E a questo punto sorge un’altra domanda: un sussidio per chi non può lavorare o per chi non vuole lavorare? Oppure un sussidio per chi non è messo in condizione di lavorare? Vanno ammesse alla luce del sole tutte e tre le realtà.
Il sussidio verrebbe erogato, immaginiamo, in base al reddito. La moglie casalinga di un chirurgo plastico ha diritto a “uno stipendio da casalinga” quanto la moglie casalinga di un disoccupato? Magari l’impegno in casa è lo stesso, ma sappiamo che anche questa valutazione in realtà è fumosa. Tutte le casalinghe sono veramente indaffarate a mille ventiquattr’ore su ventiquattro? Dobbiamo ancora perpetuare la narrazione della donna sacrificata che patisce la vita domestica come un martirio? Non tutte le casalinghe amano fare diverse lavatrici al giorno, pulire ogni spigolo delle stanze e spolverare ogni centimetro dell’appartamento quotidianamente. Ci sono anche donne che, serenamente, preferiscono non cucinare, cambiare le lenzuola una volta a settimana e che magari hanno la fortuna di poter lasciare i bambini dai nonni per dedicarsi legittimamente a se stesse. Donne che non lavorano e hanno ugualmente compagni partecipi alla gestione della casa.
Vengano concesse inoltre altre brevi divagazioni: spiace ragionare in maniera prevenuta e fare appello agli stereotipi, ma abbiamo dimenticato la proverbiale furbizia italiana? Quante indagini sono in corso sul territorio per scovare chi recepisce il reddito di cittadinanza senza averne realmente i requisiti? Con “lo stipendio alle casalinghe” non si rischierebbe alle volte di dare un sussidio a chi si presta a lavori in nero? La condizione economica italiana è critica. Lo Stato non investe nemmeno nei settori pubblici di primaria importanza come la Sanità e l’Istruzione. Possiamo davvero permetterci ulteriori rischi e sprechi?
La realtà è che viviamo in una società già avvelenata da innumerevoli rancori e sentimenti di astio che di base alimentano una vera e propria “guerra tra poveri”. Non c’è davvero bisogno del carico da novanta. Ha senso promuovere iniziative come il bonus casalinghe/i promosso dal governo Conte nell’estate del 2020: un bonus che non consiste in un’erogazione di denaro, ma nell’organizzazione di corsi gratuiti di formazione professionale per permettere alle candidate e ai candidati di acquisire nuove competenze. Questo perché perché – com’è banale ripetere – lo Stato dovrebbe promuovere la formazione di nuovi posti di lavoro per i suoi cittadini, non abbandonarsi all’assistenzialismo.
Di Valentina Mazzella