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Referendum abrogativo sulla giustizia: l’ultimo ripasso prima di accorrere alle urne

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E alla fine siamo arrivati a domenica 12 giugno. Oggi è il giorno in cui gli italiani sono chiamati alle urne per votare per il Referendum abrogativo in materia di giustizia articolato in cinque quesiti. Un referendum di quelli particolarmente complessi e – ahinoi, spiace ammetterlo – non alla portata dell‘elettore medio disinformato, pigro o proprio privo degli strumenti culturali adeguati per fare chiarimento sull’argomento. Con difficoltà mettiamo da parte le polemiche sulla validità di lasciare al popolo un referendum di tale target. L’iniziativa non è di origine popolare. Alle spalle non vi è una richiesta sostenuta ad esempio dalle firme di almeno 500mila cittadini elettori. Questa iniziativa specifica deriva da nove Consigli regionali (tutti con analogo orientamento politico, di centrodestra): Lombardia, Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Lombardia, Piemonte, Sardegna, Sicilia, Umbria e Veneto. 

In origine erano state proposte addirittura otto richieste referendarie avanzate, ma soltanto cinque sono state giudicate ammissibili dalla Corte costituzionale da proporre nel referendum di oggi. I tre quesiti scartati dalla Consulta vertevano sull’omicidio del consenziente, sulla responsabilità diretta dei magistrati e sulle droghe. Sono stati respinti perché le rispettive istanze rientravano in alcune delle ipotesi per le quali l’ordinamento costituzionale esclude la possibilità di ricorrere a un referendum.

I quesiti referendari di oggi sono formulati ai sensi dell’articolo 75 della Costituzione. Ai cittadini si domanda se desiderino abrogare alcune previsioni normative attualmente in vigore nell’amministrazione della giustizia. Su schede diverse e dai colori differenziati compaiono cinque quesiti referendari oggetto di consultazione. Ogni quesito si apre con la formula: “Volete voi che sia abrogato …?”.

Il quesito numero 1, su una scheda di colore rosso, desidera a cancellare il decreto Severino, numero 235 del 2012. Votare Sì significa voler rimuovere dall’ordinamento l’intero testo normativo del decreto Severino. Il decreto Severino disciplina le cause di incandidabilità, ossia quelle cause che impediscono l’assunzione o il mantenimento di cariche politiche, elettive e di governo, a livello europeo (Parlamento), nazionale o locale. L’incandidabilità, al momento, scatta automaticamente a fronte di una condanna penale per reati non colposi. Oggi chi ha reati penali non può lavorare in politica grazie al decreto Severino. Se vincessero i Sì, il giudice avrebbe ugualmente il compito di valutare caso per caso se e per quanto tempo comminare, oltre alla sanzione penale, anche la sanzione accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici. Di fronte certe evenienze – previste ovviamente dal codice penale – l’interdizione può anche essere perpetua. Chi vota No vuole mantenere la normativa oggi in vigore sul tema e conservare il decreto Severino inalterato.

Sulla scheda arancione leggiamo il secondo quesito: “Volete cancellare il pericolo di «reiterazione del reato» dal novero delle condizioni che consentono al giudice di disporre misure cautelari personali?”. Vota Sì chi vuole eliminare la generalizzata possibilità, oggi riconosciuta ai giudici, di adottare misure cautelari personali detentive (come la custodia in carcere o gli arresti domiciliari) o non detentive (come l’allontanamento dalla casa familiare del coniuge violento, o il divieto di avvicinarsi a certi luoghi per lo stalker) qualora ritengano sussistere il concreto pericolo che l’imputato o l’indagato possa commettere nuovamente un delitto della stessa specie di quello per cui è indagato o processato. In breve chi promuove il Sì vuole limitare le condizioni in presenza delle quali i provvedimenti cautelari possono essere disposti. In questo modo i giudici potranno invocare il pericolo della reiterazione del reato solo per alcuni gravi reati come quelli connessi ad esempio alla criminalità organizzata. Chi vota No, invece, vuole mantenere la normativa oggi in vigore.

Sulla scheda di colore giallo compare il quesito numero 3: “Volete cancellare le norme che attualmente consentono al magistrato ordinario di passare, nel corso della propria carriera, dal ruolo di giudice a quello di pubblico ministero e viceversa?”. Votare Sì vuol dire volere che ai magistrati ordinari – ossia quelli che amministrano la giustizia in materia civile e penale – non sia più riconosciuta la possibilità, nel corso della loro carriera professionale, di cambiare le funzioni che esercitano, passando da quelle di giudice (che pronuncia sentenze o ordinanze) a quelle di pubblico ministero (che svolge le indagini e sostiene “l’accusa”) e viceversa. Oggi il numero massimo di passaggi consentiti è quattro. Chi vota Sì desidera che un magistrato, fin all’inizio della sua carriera, decida definitivamente per sempre se esercitare il ruolo di giudice o quello di pubblico ministero. Chi vota No vuole che un magistrato continui ad avere la possibilità di cambiare funzioni nel corso della propria carriera, considerando questa possibilità un beneficio per l’amministrazione della giustizia.

Il quesito numero 4 della scheda grigia domanda: “Volete cancellare le norme che attualmente non consentono la partecipazioni degli avvocati e dei professori universitari ai consigli giudiziari, quando tali organi sono chiamati ad esprimere pareri sulla professionalità dei magistrati del distretto?”. Chi vota Sì vuole che i magistrati ordinari che lavorano in un distretto possano essere giudicati non solo dai colleghi, ma anche da avvocati e professori universitari che fanno parte del rispettivo Consiglio giudiziario. Il Consiglio giudiziario è un organo ausiliario del Consiglio superiore della magistratura che, tra i vari compiti, ha in aggiunta quello di esprimere pareri sulla professionalità dei magistrati. Chi vota No vuole che i pareri sui magistrati continuino a essere discussi e votati esclusivamente dai colleghi del magistrato da valutare.

Il quinto e ultimo quesito scrive sulla scheda verde: “Volete cancellare talune norme concernenti le candidature per partecipare alla elezione dei componenti togati del Consiglio superiore della magistratura?”. Votando il Sì viene eliminato il vigente obbligo, per un magistrato ordinario che voglia candidarsi ad essere eletto componente del Consiglio superiore della magistratura, di raccogliere almeno 25 firme di colleghi disposti a sostenerne la sua candidatura. In questo modo chiunque potrebbe candidarsi senza bisogno di dover raccogliere firme. Chi promuove il Sì afferma che in questo modo si favorirebbe il ruolo delle correnti in cui si articola l’associazionismo giudiziario. Votare No, invece, significa voler mantenere l’obbligo attuale della raccolta di un numero minimo di firme. Chi promuove il No garantisce che il ruolo rivestito dalle correnti non dipenda dalla previsione che si vorrebbe cancellare purtroppo con il referendum.

Affinché l’esito del referendum sia ritenuto valido occorre innanzitutto che si rechi ai seggi almeno il cinquanta per cento più uno degli aventi diritto di voto. Questo principio viene detto “quorum partecipativo” e al suo raggiungimento concorrono anche le schede bianche e quelle nulle. Non sono invece considerati “partecipanti alla votazione” e non contribuiscono dunque al raggiungimento del quorum partecipativo coloro che, a fronte di pluralità di quesiti referendari, chiedano al Presidente del seggio di non ritirare la relativa scheda. In parole povere chi si va alle urne può scegliere di ricevere solamente alcune delle cinque schede proposte, e di rifiutare le altre: può dunque astenersi dal voto per una o più domande.

Se vincesse il Sì le previsioni normative oggetto del referendum sarebbe abrogate con effetto dal giorno successivo a quello della pubblicazione del decreto presidenziale nella Gazzetta ufficiale. Ciononostante il Presidente della Repubblica potrebbe, su proposta del Ministro interessato e previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, differire l’effetto abrogativo per un termine non superiore ai sessanta giorni. Se invece vincesse il No per cinque anni non potrà essere presentata una nuova richiesta di referendum che verta sullo stesso argomento.

Discorso diverso se malauguratamente non si raggiungesse il quorum partecipativo. Per fornire un quadro informativo degli orientamenti dei vari partiti politici, si sappia che a favore del Sì abbiamo la Lega e Radicali, a cui si sono aggiunti Italia viva e Azione. FdI sostiene solo 3 quesiti. Il M5S è contrario, mentre il PD ha optato per la linea della neutralità. Da malpensanti potremmo osare dire forse per non esporsi e saltare alla fine sul carro del vincitore. Tuttavia Enrico Letta, esponente del PD, ha più volte dichiarato apertamente che voterà No.

Di Valentina Mazzella 

 

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