NAPOLI – È solo un ricordo. Era la domenica sera del 23 febbraio 2020. Timidamente il Governo già invitava da giorni la popolazione a conservare il distanziamento sociale a causa del Coronavirus, questa fantomatica influenza proveniente dalla Cina di cui erano stati riscontrati pericolosamente dei casi in Italia. Era già stato gridato l’allarme dallo Stato. Eppure la minaccia veniva ancora sottovalutata da tutti. Appariva vicina, ma non troppo. È solo un ricordo…
Quella sera andai al teatro, al Teatro Ridotto Mercadante di Napoli. Dovevo assistere allo spettacolo “Il dito” della giovane drammaturga kosovara Doruntina Basha curato dalla regia di Carlo Sciaccaluga. Rammento la bravura dell’interpretazione dell’attrice Chiara Baffi e quella della collega Alessandra Pacifico Griffini. Ero contenta e soddisfatta. Avevo scelto quello spettacolo soprattutto per Chiara Baffi che avevo in passato apprezzato recitare anche in altre opere, come “Matilde Serao” e “Il ventre di Napoli”. Non rimasi assolutamente delusa. Rammento le loro voci vibranti e gli odori speziati che dalla messinscena investivano il pubblico per ingegnosa volontà della regia. Quello che racconto è solo un ricordo. Il ricordo dell’ultima volta in cui mi sono recata al teatro prima della chiusura di tutti i teatri italiani a causa della pandemia da Covid-19.
Così, inevitabilmente, di quelle ore mi sono rimasti vividi in mente anche molti attimi e diverse sensazioni slegate dalla rappresentazione teatrale in sé. Quella domenica andai al teatro pensando che in fondo questo Coronavirus sarebbe stato presto rimosso come negli anni fin da piccola avevo visto finire nel dimenticatoio altri allarmi sanitari come la Sars, “il morbo della mucca pazza”, l’Aviaria o la Suina. Alla fine mai nessuna di queste insidie aveva intaccato concretamente nel profondo la quotidianità occidentale. Tuttavia le insistenti immagini di Wuhan condivise dai media un po’ di inquietudine l’avevano trasmessa.
Il Ridotto Mercadante non è organizzato come un arioso teatro antico con delle poltrone in platea e dei posti in alto nei palchetti. È uno spazio più piccolo in cui il pubblico si siede su delle lunghe panche distribuite come degli spalti che dall’alto si avvicinano al proscenio diventando progressivamente più bassi. All’ingresso feci la fila fra molta gente. Mi mescolai fra la folla. Mi sedetti su una panca. Altre persone proseguivano ad arrivare. Io cercavo di non stare troppo vicina ai vari spettatori. Un ragazzo dietro di me mi chiese di poter leggere il depliant plastificato che avevo fra le mani, quello che presentava l’opera della serata. Gesto normale di educazione, glielo passai. Intanto avevo un po’ di raffreddore, ma avevo dimenticato i fazzoletti a casa. “Il Coronavirus non arriverà proprio fra noi” pensavo, forse più per convincermi e rincuorarmi. Ciononostante già provavo un immotivato senso di imbarazzo nell’ammettere di avere un banale raffreddore. Non chiesi a nessuno un fazzoletto e né tirai su con il naso perché mi avrebbe fatto sentire a disagio.
Il ragazzo alle mie spalle mi restituì il depliant. Mi ringraziò, io sorrisi. Banalissimo da dire, sorrisi e il mio sorriso si vide perché non indossavamo ancora le mascherine. Lo spettacolo stava per iniziare e altro pubblico si affrettava a occupare i posti. C’era frenesia nell’aria. Le maschere in divisa, eleganti e gentilissime, a un certo punto chiesero cordialmente a noi spettatori di stringerci sulle panche. Così più persone avrebbero avuto l’opportunità di sedersi presso gli spalti bassi e assistere meglio allo spettacolo. Semplice logica. Semplice quotidianità. Eppure io mi irrigidii. Probabilmente per lo stesso motivo per cui provavo vergogna del mio raffreddore. Erano i giorni in cui già si parlava del Coronavirus in Nord Italia. Una ragazza alla mia sinistra mi chiese se potessi spostare la mia borsa sulle gambe per sedersi più vicina a me e far spazio a una sua amica. È solo un ricordo che si mescola con delle sensazioni. Tanti dettagli perché andare al teatro non significava unicamente assistere alla performance degli attori sul palco. Andare al teatro dal vivo era un’esperienza a trecentosessanta gradi che coinvolgeva una pluralità di aspetti. Era interazione. Significava sorprenderti anche a osservare le reazioni di altri spettatori a viso scoperto perché magari qualcuno era sobbalzato o aveva riso. Significava commentare la sceneggiatura o la scenografia al termine delle due ore scendendo le scale in molti. Così oggi, a distanza di un anno da quel giorno, credo che la normalità fosse quella, la spontaneità con cui senza timore un’estranea poteva chiederti: “Scusa, non è che puoi spostare la borsa? Se ci stringiamo, riesco a far sedere anche lei”.
Di Valentina Mazzella