Di Valentina Mazzella
RECENSIONE – Dopo aver guardato al cinema il film “L’uomo che uccise Don Chisciotte” si esce dalla sala con la voglia di muoversi al trotto di un cavallo immaginario per correre contro mulini invisibili e avventure cavalleresche. Terry Gilliam, con il suo tocco inconfondibile, ha attinto da uno dei classici più classici della letteratura europea. Ha rielaborato la storia attualizzandola e allo stesso tempo ha fatto brillare la magia più intima del capolavoro di Miguel De Cervantes. Un lavoretto non da poco. Brevemente, se nell’opera originale il protagonista era un appassionato di libri che finiva con il credersi un vero cavaliere errante, questa sceneggiatura conserva lo stesso messaggio e lo stesso grado di adorabile follia proponendo invece un calzolaio (Jonathan Pryce) convinto di essere per davvero lo stesso Don Chisciotte della Mancia.
Ciononostante il protagonista non è l’eroe dei mulini a vento più famoso del mondo, ma un certo Toby (Adam Driver). Gilliam ci propone una storia che alla fine altro non è che il percorso interiore di un giovane regista alla ricerca dell’ispirazione per una nuova pellicola e inconsciamente di se stesso. Emblematica la scena in cui allegoricamente lo sviluppo psicologico di Toby si concretizza dopo essersi svegliato con delle monete d’oro posate sulle palpebre, secondo i costumi dell’antica cultura egizia previsti per la sepoltura dei morti.
La fotografia è ariosa, nitida, uno spettacolo di colori caldi e vivaci. Con ingegno sono state scelte molte location spagnole senza tempo. Scenografie adatte a una rappresentazione sia di tempi remoti che moderni. Eppure la storia raccontata da Gilliam è più amara di quel che potrebbe sembrare dai colori delle immagini. Lo spettatore assapora scene grottesche e oniriche, situazioni paradossali o goliardiche. E dietro a tutto ciò riscopre infine nascosti vissuti tristi, sogni inseguiti e infranti, solitudine e abbandono, egoismo e ambizione, sadismo e avidità, possesso e rancore, amore e affetto, pentimento e rinascita. Un film che annoia se si predilige la banale coerenza logica, di quella standardizzata servita su un piatto d’argento. Un film delizioso che si ama se al contrario se ne apprezza la geniale e vorticosa follia ricca di significati reconditi.