RECENSIONE — “Joker: Folie à Deux” è davvero il film terribile di cui tutti parlano? Eppure, al suo debutto alla Mostra del Cinema di Venezia, la pellicola è stata omaggiata con ben undici minuti di applausi. Il pubblico delle sale, invece, lo reputa il maggiore flop cinematografico dell’anno. Com’è possibile una spaccatura così profonda? Banalmente “Joker 2” ha deluso le aspettative di molti perché il film non racconta quanto una buona fetta di spettatori speravano venisse narrato. Reduci dal primo capitolo, nessuno immaginava che questo sequel avrebbe sconsacrato la figura del protagonista, mitizzata nel precedente lungometraggio.
Chiariamolo subito: “Joker: Folie à Deux” non parla di Joker. Il film parla di Arthur Fleck. Lo sappiamo, la diegesi cinematografica lo evidenzia: tutti amano Joker, ma a nessuno piace Arthur Fleck. Alla regia di Todd Phillips interessa indagare soprattutto questo aspetto. L’intera sceneggiatura (scritta a quattro mani da Phillips con Scott Silver) sembra concepita per ribaltare quanto costruito nel film del 2019. La narrazione cambia in maniera significativa la prospettiva. Appare evidente, ad esempio, analizzando il taglio psicologico e sociologico attribuito alle responsabilità del singolo individuo.
Con il primo Joker, la conclusione a cui il pubblico approdava era, in soldoni, che Arthur diventava effettivamente Joker perché stanco di sentirsi sopraffatto dalla cattiveria di una società spesso gratuitamente meschina, pigramente indifferente e senza empatia per il prossimo. “Joker: Folie à Deux” invita a riflettere su quanto, tuttavia, non si possa del tutto deresponsabilizzare le persone che commettono atti criminosi. Nel plasmare un individuo pesano di più le sue componenti innate o l’influenza delle circonstanze ambientali?
Qual è la vera maschera? Arthur Fleck o Joker? Ne conosciamo l’identità, ma qual è il vero io più intimo del protagonista? Di nuovo: è più autentico Arthur Fleck o Joker? Vien da sé che chi desiderava guardare al cinema un classico film — confezionato con inizio, sviluppo e conclusione — non abbia trovato pane per i suoi denti. Al contrario si è ritrovato, seduto in poltrona, a sorbire due ore di una storia apparentemente statica perché imperniata sul dilemma esistenziale del protagonista. Da qui le accuse mosse al film secondo cui “Joker: Folie à Deux” sarebbe una pellicola assurda e senza trama.
Notevole l’interpretazione di Joaquin Phoenix, nel ruolo di Arthur/Joker. Altrettanto eccezionale quella di Lady Gaga nei panni di Harleen “Lee” Quinzel, ossia un’acerba Harley Quinn un po’ distante dal canone. Poco graditi dagli spettatori gli intermezzi cantati che hanno reso il film un musical. Anche quest’ultima è stata in realtà una scelta stilistica male interpretata da parte dei più. Le canzoni e le coreografie sono ulteriori espedienti utili per sottolineare la contrapposizione tra le apparenze e la sostanza: questa vita in fondo è uno show. La leggerezza dei brani cantati suggerisce ancora di più il senso del grottesco che attraversa il racconto. Non solo lo spettatore medio rannicchiato nella sua poltrona, ma a un certo punto lo stesso protagonista è esasperato dalle canzoni in stile musical.
La pellicola è ricca di omaggi cinematografici a grandi titoli del Novecento. Con la sua riflessione sull’identità non sdegna addirittura, con modi molto velati, degli accenni al celebre caso di Billy Milligan. Tuttavia, inevitabilmente, “Joker: Folie à Deux” cita e capovolge simbolicamente diversi spezzoni del suo primo film. Emblematiche le scene in cui i personaggi risalgono a piedi, senza energie ed entusiasmo, la rampa di scale da cui Joker è sceso con un balletto già cult nella pellicola del 2019.
Anche la cura del make-up e del reparto costume è attentissima e congeniale alla trama. Appare evidente notando ad esempio la giacca rossa indossata da Harleen quando desidera spronare il protagonista a essere Joker, mentre Arthur ritrova se stesso e la sua natura fragile con addosso degli abiti smunti.
La verità è che nel guardare “Joker 2” non si può fare a meno di pensare anche al massacro di Aurora, un terribile fatto di cronaca avvenuto nell’omonima cittadina in Colorado nel 2012. Durante la proiezione della prima del film “Il cavaliere oscuro – Il ritorno”, in un cinema, un giovane ex dottorando di neuroscienze sparò sul pubblico, uccidendo 12 persone e ferendone 70. Durante la strage il carnefice James Holmes, 24 anni, era vestito esattamente da Joker. A dimostrazione del fatto che tutti possono diventare Joker.
In questa chiave Joker diventa un simbolo come V per vendetta: “puoi uccidere un uomo, ma non un’idea”. Joker però è obiettivamente un simbolo pericoloso. Il riscatto fai-da-te non è giustizia: è vendetta. Disordine sociale. Non si può perdonare ed empatizzare al cento per cento con la follia di Joker semplicemente perché inteneriti dalla condizione di emarginazione sociale di Arthur. Conoscere la genesi di Joker può essere affascinante. Può aiutare a riflettere, a comprendere certe dinamiche. Tuttavia Joker resta un antieroe. Un villain. Per questo il film indietreggia riflettendo sulla scissione tra Arthur e Joker, su quale sia il suo “io” più profondo e come ciascuno sia sempre responsabile delle proprie scelte e delle proprie azioni. Anche quando il mondo e la vita sono stati cattivi con noi, non è detto che dobbiamo esserlo o diventarlo a nostra volta.
Di Valentina Mazzella